A PIANTAR PATATE
racconto
Mio nonno sedeva accanto a me, sulla sua poltrona di vimini, le mani callose abbandonate in grembo. Restavamo spesso così, vicini, respirandoci senza parlare. Lasciavamo che il silenzio saturo di pensieri ci avvolgesse pacato.
Da qualche mese faticava a completare le parole, a causa di quella paresi che lo aveva chiuso al mondo, dal quale, suo malgrado, ora dipendeva per qualsiasi bisogno. Ma la brezza ancora fresca di aprile muoveva le foglie leggere del grande ciliegio sopra di noi e le sue labbra ebbero un tremito. Niente più che un flebile borbottio, all’inizio. Seguì una voce gutturale ed incerta, che avanzava a fatica e che altrettanto faticosamente cercavo di capire.
“Eravamo in Francia. Tutti italiani. Si trovava una fattoria… Casa di campagna… Campi. E ci davano il lavoro. Tante volte era il fieno degli animali. Tante volte il tabacco. Poi da quella casa ci mandavano in un’altra vicina. Per lavori diversi. A seconda della stagione…”.
Le tue mani sono farfalle. Farfalle callose, ma ancora leggere e libere di inseguire un sogno, oppure un ricordo, di quanti anni fa.
“Noi dormivamo nelle stalle, come capitava e da mangiare c’era poco… Dovevamo portare a casa qualcosa, per la famiglia, i figli. I padroni parlavano della guerra. Era un problema per i campi. Ma quando i tedeschi sono arrivati, allora sì che c’era la guerra. Dovevamo nasconderci, perché avevano le pistole. La sera arrivavano vicino alle case e urlavano e noi nascosti. Sparavano se passava qualcuno e urlavano in tedesco. Allora restavamo nel fienile. Al buio. Zitti. Ma quella notte del fuoco… Siamo dovuti uscire fuori. Erano lì con la pistola e dicevano parole in tedesco. Ci siamo messi in fila e con le braccia alzate. Poi per strada le abbiamo tirate giù. Ma ogni tanto sparavano. Io camminavo in mezzo alla fila. Sparavano, ma verso mattina basta. Abbiamo preso un treno che il sole era ancora basso. Il treno era pieno, ma siamo riusciti a salire. Eravamo tutti italiani. Ma sul treno no…”.
Vedo che i tuoi occhi chiari sono là, con gli altri lavoratori italiani prigionieri di guerra, di una guerra che non hanno mai fatto, che neanche sapevano esistesse fino ad allora.
“Sul treno c’era gente da prima. Qualcuno veniva dai campi, come noi. Altri non so, perché non parlavano come me. Un italiano diceva che andavamo in Germania: ci avevano preso i tedeschi. In Germania c’era tanta terra, nera, grassa, tante bestie, fieno da “fare su”. Ma non c’erano i finestrini per vedere la terra. Il treno non era come quelli di adesso, che si vede fuori. Era tutto chiuso e non si vedeva se c’era la terra. Si sentiva solo il rumore del treno e no delle bestie. Degli altri uomini si sentiva la voce e l’odore. Qualcuno diceva che in Germania c’era la terra buona. Nera. Grassa. Il giorno dopo non eravamo ancora arrivati. Un altro diceva che il treno andava in Russia e là no che non c’era la terra buona. Troppo freddo. Niente fieno. Neanche le patate. Il treno si è fermato che il sole era alto. Ci ha messo tanto a fermarsi, perché era lungo. Tutti volevamo andare subito alla fattoria, cominciare a lavorare, ma i tedeschi con la pistola di nuovo “in fila!”, ma in tedesco. Quando siamo arrivati non pensavamo che eravamo arrivati. Non c’era la fattoria. Neanche tanta erba, ma terra piena di sassi. Un recinto di rete di ferro. E noi dentro. In fila. Ma in tedesco. Tutti con un numero. Ma la terra non si sapeva dove era. E il padrone. Tutti in fila. E si vedeva solo chi stava davanti. Ci hanno fermati davanti a un capannone. Lungo come il treno. E tutti dentro. Lì c’era da dormire meglio che sul treno. Ma niente coperte. Però quando siamo arrivati faceva caldo.”
Le tue mani cominciano a tremare. Non sono più così leggere. Credi, non sono più così leggere.
“Con le piogge d’autunno nel capannone c’era fango. I vestiti erano bagnati e non si asciugavano. Tutti dicevano che col freddo i tedeschi vanno via, ma invece restavano lì. E noi con i vestiti bagnati e la fame. Ci davano un brodo che puzzava. No tutti i giorni. Anche un pezzo di pane, qualche volta. Qualcuno lo metteva da parte, per il viaggio. Ma lì i tedeschi non partivano e noi sempre nel capannone. E fuori c’erano i sassi e il vento. Freddo ormai, perché arrivava l’inverno. Però la cosa più brutta era che non c’era niente da fare. Niente campi, niente terra. Niente tabacco. Niente patate.
Con la neve si vedeva che i tedeschi erano nervosi. Prendevano alcuni di noi, dieci, e li mettevano in fila. Una volta c’ero anch’io. Ero l’ultimo. Il dieci. Sparavano a tutti, ma quando la pistola non andava, allora quello lo lasciavano stare. Io ero il dieci.
Però uno che dormiva vicino a me aveva trovato una patata. Per terra. Me la mostrava e rideva. La tirava fuori da sotto la giacca e rideva, perché loro non lo sapevano che lui gliela aveva presa”.
Le tue dita curve la avvolgono. E’ piccola, irregolare. Ha ancora il profumo della terra dalla quale è uscita. La sfiori, la carezzi, la stringi piano.
“Dietro il capannone andavamo a pisciare. C’erano dei buchi scavati nella terra. Donne e uomini tutti lì. Ma se c’era una donna noi aspettavamo girati. Una sera mi mostrò che la patata non c’era più sotto la giacca. Era là. Sotto un po’ di terra, vicino alla latrina. Terra grassa. Nera, là vicino alla latrina. Qualche tedesco era andato via. I capi. Quelli rimasti ogni tanto sparavano, ma non era come prima. Una mattina arrivarono cinque automobili di quelle tedesche e tutti salirono su. Dopo partiti c’era silenzio. Siamo usciti dal capannone. Niente tedeschi. Uno ha detto “è finita la guerra”, ma piano perché non si sa. Poi piano abbiamo camminato attorno al capannone. Dove ci sparavano. Nessun tedesco. Neanche dove ci davano il brodo. Dietro, alla latrina. Io guardavo bene. Ma una cosa l’ho vista. Là, vicino ai buchi della latrina, c’erano già le foglie. Vicino al buco della latrina, c’erano le foglie della patata. La terra grassa. Noi avevamo piantato la patata. Vicino alla latrina. Era nata. Ora che i tedeschi erano andati via”.
Le tue mani la cullano, quella piantina nata nello sterco, la aiutano a crescere, a sollevarsi dal nulla. Le tue mani disegnano la vita.
© 2007 - Cristina Lanaro
Click here to edit.
SI SCRIVE APE MA SI LEGGE UCCELLO
Ho cominciato a scrivere a sei anni scarsi. A scuola. La prima cosa sensata che ho scritto è stata la parola “ape”, con una penna all’inchiostro blu che perdeva. Le improvvise fughe d’inchiostro di quella benedetta penna si trasformavano sotto i miei occhi, assumendo forme impreviste, simili alle molteplici trasformazioni delle nuvole in un cielo ventoso. Affascinata, mi divertivo a riconoscere in quelle macchie l’immagine di oggetti o animali conosciuti: a volte erano i baffi del gatto, a volte un rametto o un fiore, più spesso un uccello.
IN ATTESA DI GIUDIZIO
racconto
Distesa immobile sul letto. Nessun gesto, né impercettibile movimento dei miei mille pezzi raccolti e abbandonati.
Quel raggio di cristallo che filtra dalle persiane incide il silenzio dei miei piedi accostati.
Riconosco il tiepido respiro del mattino, il profumo di caffè forte e latte bruciato, le prime voci roche dei passanti. Tutto è così distinto e chiaro, adesso.
Vagavo a piedi nudi, attorno al tavolo della cucina, cercando di ricordare perché ero lì. Stoviglie, accatastate sul lavello. Una tazza di porcellana blu attirava spesso la mia attenzione, fieramente sospesa tra il davanzale e il nulla. Racchiusa tra mute pareti amaranto, la tensione per l’ascolto di ogni minimo rumore che potesse provenire dalla culla.
Erano giorni infiniti, il mattino uguale alla notte, il buio e la luce confusi senza senso da quel groviglio di fili grigi e cannule trasparenti e bende candide e oscuri liquidi attorno ad un corpo troppo debole, piccolo, di neonato.
Non riuscivo a restare ferma, allora, come se il mio assurdo girovagare per la casa potesse scongiurare l’arresto della sua fragile vita. Poi, ad un tratto, un suono, bestiale, quasi osceno: il crudo furore di un animale senza speranza…
Sento la luce e il suo calore, sul mio ventre, ora.
Dalla finestra chiusa male rumori lontani: risate, parole ripetute, forse un saluto. A quest’ora suoni e odori si confondono, si accordano in una sapiente, misteriosa sinfonia. La sua forza sta nei mille toni di cui è composta, ognuno ignaro del suo ruolo.
Il mio ventre, ancora gonfio di promesse, era trafitto da dolori acuti, ma brevi. Mi piegavo, allora e spingevo forte le mani verso quel dolore, per catturarne l’essenza. Il suo vagito, quell’urlo animale, risuonava dentro di me, in una smorfia muta. Quello stesso mio patire, che a lungo era rimasto senza nome, ora gridava la sua esistenza. Fuori dal mio ventre e dentro ancora.
Ora è il petto violentato dalla luce, potente, accecante. Tutto tace. Silenzio e chiarore. Questo è il momento del giorno che preferisco: solo qualche nota soffusa di vita, mista ad aglio bruciato e poi brevi oblii, lontani dagli incubi notturni.
Il dolore al seno mi aveva spinto, nei giorni precedenti, ad accostare il mio corpo alle sue minuscole labbra rosa: gesto disperato, inutile, di madre. Solo cannule e freddi liquidi per quel fragile essere che da me era uscito, per sempre. Solo allora capii veramente che il mio giocattolo era rotto. Le tante delusioni di bambina non mi aiutavano ad accettarlo. C’entravano i miei sogni di donna, i molti anni di attesa, c’entrava il mio corpo.
Sento la carezza del sole lambire le labbra. In essa sfuma quel grido muto che mi accompagna in ogni momento.
Ecco, l’accordo fantastico riprende, là fuori. C’è perfino un cane, sotto alla finestra, che abbaia da cane, semplicemente.
Ripetevo all’infinito una sequenza di parole, l’eco di azioni quotidiane, sopravvissute come naufraghi alla tempesta. Ma poi ho urlato forte, quel giorno, di fronte allo specchio bordato d’argento, splendente di follia. In mano delle forbici, forse. Le lame, rosse.
Le mie mani coprono i miei occhi. Non voglio guardare, eppure una luce tagliente mi raggiunge, trafiggendo le palpebre abbassate.
La forza disperata del giorno morente rompe l’armonia dei suoni: grida nervose e suoni metallici, esaltati dall’odore misero dell’asfalto.
Agonizzanti raggi di un sole al tramonto percorrevano ciechi il vuoto silenzio della stanza. Non vedevo che le mie mani e quelle cannule aggrovigliate e le lame, rosse. Non era latte, certo, ma era essenza di me quel liquido denso che bagnava il mio petto.
Apro gli occhi. E’ buio attorno. Come quella notte, ascolto il mio respiro.
La testa tra le mani, cullavo il mio dolore, profondo, al ritmo lento dell’attesa. Arrivarono dopo qualche ora, o minuto, chiamati da qualche vicino, o spinti dalla pietà. Mi sollevarono da terra, sorressero il mio corpo scomposto e lo avvolsero in bende candide, credo. Mi deposero su un letto galleggiante. Chiusero l’ambulanza. Io ero dentro. I miei occhi spalancati non vedevano luce. Fino a quando non apparve la luna. Una scia di latte che lordava tutto il mio corpo e, poco più in là, illuminava quelle cannule e bende e fili, grigi e morti come la mia anima, immobile accanto a me.
Questa notte è senza luna. Respiro il silenzio, leggera nell’abbandono. Aspetto, ancora, la luce di domani.
© 2008 - Cristina Lanaro
FERRAGOSTO
racconto
Povero Antonio.
Quanti problemi ti ho dato sempre. Anche questa della foto doveva capitare. Ma del resto a ferragosto…
Però avrei dovuto chiedere consiglio a qualcuno, prima di scegliere l’agenzia di pompe funebri. Mi piaceva l’insegna, ecco. Elegante, caratteri neri, leggeri, su fondo oro. Quando ci passavo davanti spiavo oltre il vetro della porta.
Morire tre giorni prima di ferragosto è un problema, mi hanno spiegato. Avevo immaginato una stanza molto ampia, con tante belle bare appoggiate alle pareti e una musica malinconica di sottofondo; invece il giovanotto robusto, compresso in abiti troppo stretti, mi ha accolto in un locale minuscolo, appena sufficiente a contenere la scrivania rivestita di cuoio nero ed un paio di sedie di plastica bianca.
Avrei dovuto andarmene: si capiva che lì non erano all’altezza, ma io non lo so fare, di andarmene. Aveva lo sguardo severo, mentre mi spiegava frettolosamente che bisognava concludere tutto in due giorni perché poi si parte per le ferie…
Tu, parti per le ferie, maleducato ciccione, avrei dovuto dirgli. Invece gli ho sorriso intimidita, mentre tamburellava con la mano sinistra sul piano della scrivania, lasciando impronte unte che si moltiplicavano spaventosamente veloci.
Quando ho estratto la tua foto l’ha infilata distrattamente in una busta che ne conteneva altre e ricordo che mi sono chiesta come avrebbe fatto a non confonderle. A pensarci adesso mi viene quasi da ridere. L’annuncio di morte appeso agli angoli delle strade con il nome tuo e la faccia di un altro.
Povero Antonio. Quando me ne sono accorta, avevo le scarpe con il tacco a spillo. Le avevo prese per sfilare accanto a te la sera, a teatro o al ristorante, ma non le avevo mai messe prima.
Eri sempre così impegnato anche di sera, povero Antonio. Mi sono venute allora queste vesciche, mentre correvo verso la porta a vetri dell’agenzia sperando che non fosse già chiusa.
Mi sono messa le basse per il funerale. La faccia di tua mamma… Mi squadrava come se mi fosse spuntato un altro naso. Dall’alto del suo metro e settantadue, alla sua età, ma una volta era più alta, ha sempre disprezzato il mio metro e sessanta.
Cercavo di stare un po’ sollevata in punta di piedi quando mi portavi da lei, ma poi mi sedevo sul divano ampio e morbido e sprofondavo nella vergogna di non toccare con i piedi il tappeto persiano.
Quasi quasi mi tolgo le scarpe e mi distendo sul divano. Tutto bianco e nero, a casa nostra. Così hai voluto, e niente fronzoli inutili sui ripiani. Un po’ alla volta sono sparite le mie boccette di vetro di Murano e i miei soprammobili di ceramica. Lo facevi per me, perché non avessi troppo da spolverare.
Una regina, come una regina mi trattavi, diceva tua madre. Perfino la donna a pulirmi la casa, una volta la settimana. Una regina con i piedi che puzzano, senti che roba. E io ti ho rovinato il funerale.
È per via della foto che sono venuti in pochi, perché tu eri conosciuto e stimato. C’era il tuo amico, quello con cui uscivi la sera fino a tardi. A quanto pare conosceva bene tua madre, perché è andato subito da lei per le condoglianze e a me appena un cenno, con lo sguardo rivolto altrove.
Non sono mai stata simpatica ai tuoi amici. I primi tempi, appena sposati, li invitavi spesso a casa, per cena, ma non ero brava a cucinare, né a parlare. Ridevo troppo se bevevo un bicchiere e mi facevo ripetere le storie che non capivo. Così non li hai invitati più, povero Antonio.
Ho imparato a stare in silenzio e a non ridere quasi mai, ma i tuoi amici non sono tornati, a casa nostra. L’aria condizionata, il clima, quello non l’hai mai voluto e adesso soffoco in questo salotto senza colore e senza aria, nonostante sia quasi nuda.
Guarda un po’ questi nuovi cuscinetti di grasso tra il reggiseno e gli slip. Ma oggi non li devo coprire prima che arrivi. È una sensazione nuova, ascoltare il silenzio della casa pensando che solo io lo potrò rompere. Sono stata per tredici anni come un cane che aspetta il padrone, attenta al minimo rumore della strada, per riconoscere il motore della tua auto tra le altre.
E correvo ad indossare qualcosa di elegante o a mettere la teglia in forno, per l’ultima cottura. Odiavi mangiare cibi riscaldati. Del resto sono a casa tutto il giorno, perché dovrei aver bisogno di riscaldare. Ma c’era sempre qualcosa che non andava: dimenticavo il sale nell’acqua della pasta oppure aprivo la porta spettinata. Non mi dicevi niente, ma si capiva che ti avevo deluso. Quanta pazienza, povero Antonio.
Perfino a morire, ti sei dovuto arrangiare. Mi hanno detto che ti hanno trovato nel tuo ufficio la mattina, piegato sulla scrivania. Non mi ero neanche accorta che non eri rientrato. Ormai prendo sempre i sonniferi per dormire.
Non riuscivo a capire bene le parole della donna delle pulizie al telefono, alle sette e mezza del mattino. Mi sentivo ancora la bocca amara e la testa pesante, avrei voluto riagganciare e tornare a letto. Urlava quella donna, come una pazza. Tu non sopportavi le donne che urlano. Però è stata gentile a chiamarmi. Avrà trovato il numero da qualche parte sulla scrivania.
Sarei potuta arrivare all’ufficio in mezz’ora, ma non riuscivo a decidere cosa mettere, mentre l’ansia aumentava, così sono arrivata che erano già tutti lì.
Erano più imbarazzati che dispiaciuti. Il tuo corpo era stato disteso a terra sul tappeto di moquette beige e anche così eri austero, severo con me che ti guardavo aspettando che mi dicessi cosa fare. Qualcuno mi ha preso sottobraccio, mi ha sussurrato parole di conforto. Poi mi hanno lasciata sola, con il tuo corpo freddo in quella posizione inopportuna.
Il silenzio è rotto, ma non da me. Mi dovrò alzare, anche se gli occhi mi si chiudono per il sonno e l’afa: il suono ripetuto che segnala un messaggio in arrivo sul tuo cellulare non mi lascerebbe comunque dormire. È strano. È come una parte rimasta viva di te, un pezzo di anima dimenticata. Lo vedo da qui, appoggiato sul tavolino basso sotto alla finestra, dove l’ho lasciato il giorno della tua morte, vicino agli altri oggetti che avevi addosso.
Scalza. Non camminavo mai scalza quando c’eri tu. Il pavimento è caldo e liscio. Voglio continuare a camminare per la casa, ad occhi chiusi, sentire quali sono i punti di massimo calore, indovinare le strade del sole. Che stupidaggine. Mi infilo le pantofole che ho lasciato sotto il tavolino prima di uscire e intanto leggo quest’ultimo messaggio.
Forse non dovrei. Non l’ho mai fatto. Il tuo cellulare mi pesa in mano come un peccato. Una volta, da piccola, ho aperto il cassetto del comodino della mamma mentre era a fare la spesa: chissà cosa pensavo di trovarci e invece non c’era niente, niente che non avessi già visto. Le rubai lo stesso qualcosa: una vecchia moneta che poi scambiai a scuola con una gomma a forma di rana. Quando mia madre si lamentò di aver perso l’unico ricordo del suo primo viaggio con mio padre, mi sentii male. Ma questo è solo un cellulare che usavi per lavoro ed è mio dovere controllare quest’ultimo messaggio che ti ha inviato qualcuno che ancora non sa della tua morte.
“Ieri sera ti ho aspettato fino alle 10”
Del resto ce ne saranno molti a non sapere ancora della tua morte, povero Antonio. L’annuncio sul giornale non l’ho messo, non c’ho pensato.
“Perché non sei arrivato?”
Anche per questo tua madre ha ragione ad essere arrabbiata con me. Come si fa a dimenticare di mettere l’annuncio sul giornale?
“Non ce la faccio più”
Ma d’altra parte chi l’avrebbe letto l’annuncio il giorno prima di ferragosto. E poi quelli dell’ufficio lo sapevano già, che eri morto e i tuoi amici sono tutti in vacanza, chissà dove.
“Dillo a tua moglie o mi uccido”
Un’improvvisa sensazione di vertigine mi costringe ad appoggiarmi al tavolino.
“Ti aspetto. Vieni subito”
Torno a sedermi sul divano. Ora sento freddo, come se non avessi più la pelle.
“Ieri sera ti ho aspettato fino alle 10. Perché non sei arrivato? Non ce la faccio più. Dillo a tua moglie o mi uccido. Ti aspetto. Vieni subito”
Era questo allora. Era per QUESTO che i tuoi colleghi evitavano di guardarmi, dopo la tua morte.
Sapevano.
Forse è il momento di quella sigaretta di riserva, quell’ultima del pacchetto non finito perché ti promisi di smettere. Me la sento già tra le mani e il gusto pungente e polveroso in bocca e poi quel leggero frullio d’ali nella testa.
Le gambe non si muovono però, non rispondono al mio bisogno di rialzarmi, di ricominciare. Dalle finestre aperte il battere ostinato di un martello, l’abbaiare improvviso di un cane, la risata veloce di un bimbo che si allontana.
Sento una fitta nel braccio, molto profonda, con radici nel cuore. Il martello è ora nella mia testa, copre i miei pensieri, inchioda il mio corpo pesante. Terra buona da cui germoglia il dolore, tanti piccoli figli che nascono e gridano.
Arriva così la morte, nei momenti meno opportuni, dopo la prima volta a piedi nudi, quando si ha in bocca il piacere di un’ultima sigaretta mai fumata, a ferragosto.
© 2010 - Cristina Lanaro
Racconti per bambini
Trovo che scrivere per bambini e ragazzi sia particolarmente complesso; in rare occasioni mi sono cimentata in questa impresa.
IL SEGRETO DI BIANCA E SAMO
racconto
disegni di Emanuela Lanaro
La porta a vetri della palestra era socchiusa e così, senza pensarci due volte, Samo si infilò dentro, cauto, spiando da una parte e dall’altra per vedere se per caso ci fosse qualche bidello. Il suo preferito era Giovanni, un omone grande e grosso che gli mollava sempre delle gran pacche sulla schiena e che gli sorrideva, complice, quando la maestra lo cacciava fuori dalla porta. Di bidelli, però, nemmeno l’ombra.
Samo non aveva nessuna voglia di tornare a casa: da quando il papà aveva annunciato a tutta la famiglia il loro imminente trasferimento nella città dello zio, la mamma era triste, silenziosa e a pranzo nessuno di loro si guardava più negli occhi.
Com’era diversa la palestra rispetto a due ore prima: senza i gridolini soffocati dei compagni, le risate delle bambine, i richiami all’ordine della maestra, il sudore e lo scalpiccio delle suole di gomma sul pavimento, quell’ampia stanza sembrava una scatola vuota.
Samo, senza pensarci, cominciò a volteggiare in ritmati passi di danza, come faceva sempre quando era solo. Muovendosi così, seguendo la musica che in quel momento era dentro di lui, si ritrovò senza accorgersene vicino alle spalliere e alla trave, dove qualcuno, a quanto pare, aveva dimenticato delle scarpe da ginnastica viola e arancio... Ma forse no: lì c’era qualcuno, seduto!
“Ciao!”. Samo aveva quasi gridato il suo saluto mentre le sue braccia disegnavano grandi onde eleganti nello spazio attorno e le sue gambe rimbalzavano come molle sul pavimento gommoso. La risposta si fece attendere, così Samo si avvicinò per scoprire quale misterioso essere muto, proprietario di scarpe viola e arancio, stesse condividendo con lui quel pezzetto di mondo. “Ah, sei tu! Ti chiami Bianca, vero?”
Silenzio.
“Io sono Samo”. Dicendo questo il bambino mosse un rapido passo come di tip tap, che concluse a braccia aperte, sorridendo con i suoi bei dentoni bianchi, un po’ in fuori.
Bianca rimaneva ancora in silenzio, lo sguardo fisso verso la parete di fronte. Ma Samo non si scoraggiò: “Ti vedo a volte a ricreasione. Sei anche tu in quarta, no? “
... “Ciao”. Il saluto di Bianca non era dei più calorosi, ma Samo non ci fece caso, gli sembrò comunque che quella bambina triste volesse parlare con lui, perciò continuò: “Io sono qui per Giovani... cioè, pensavo che c’era Giovani, a fare le pulisie qui in palestra, ma... ci sei tu. Come va? Non pensare che sono strano, se mi muovo, è che... io balo sempre quando... ti piace balare?”. “Un po’”. Mentre rispondeva distrattamente a Samo, Bianca volse lo sguardo, preoccupata, verso il pezzetto di formaggio che aveva depositato qualche minuto prima vicino alla crepa nel muro: il bambino stava volteggiando troppo vicino per non accorgersene. Perciò, anche se le chiacchiere non erano il suo forte, proseguì: “Mi piace come balli. Fammi vedere da lontano... va’ più in là, verso i materassi, così imparo come fai”. Mai era successo a Bianca di parlare così tanto con uno sconosciuto e con un tono quasi gentile, tanto che lei stessa ne rimase meravigliata, pur restando comunque in attesa di liberarsi del ballerino e del formaggio. Ma si pentì subito della sua loquacità quando arrivò, di sorpresa, l’invito di Samo: “Vieni, bala con me: ti imparo come si fa. Ascolta con li ochi chiusi. Vieni: dami la mano, dai!”.
Un attimo dopo Bianca rimbalzava come una palla su e giù per la palestra, guidata dalle mani calde di Samo, confusa e imbarazzata. Ad un certo punto, però, la bambina cominciò a sentire qualcosa dentro, una specie di musica e i suoi passi di danza diventarono più leggeri. Non le era mai capitato di muoversi così, senza pensare a niente, seguendo solo un ritmo che arrivava da chissà dove! Se si fosse vista, così sorridente e scatenata, non si sarebbe riconosciuta: i capelli sciolti, leggeri, le volavano attorno al viso, formando una soffice nuvola nera in continuo movimento. Le sue mani, non più strette da quelle di Samo, cominciavano a disegnare strane onde sospese nell’aria, mentre le sue lunghe gambe sottili giravano, giravano...
“Sono qui per il topo, sai? Ho visto un topo, qui, quando facevo ginastica... Ho del pane per lui...”. Samo lo disse mentre Bianca si stava lanciando in un pericoloso volteggio a caduta libera e non capì perché la bambina rise tanto, dopo essere atterrata goffamente sul materassone verde in fondo alla palestra.
Quella volta finì così, con Bianca che scappava via ridendo dalla palestra e Samo che non capiva, ma era sicuro di aver messo un po’ di felicità dentro a quella bambina silenziosa, dagli occhi tristi com’era triste lui quando pensava a... Però oggi era contento: aveva una nuova amica e poi a casa c’era il suo fratellino piccolo che lo aspettava perché non voleva mangiare senza Samo. Così fece un’ultima piroetta, diede una sbirciatina alla crepa nel muro, lasciò il pane vicino al formaggio (ora aveva capito perché Bianca rideva!) e si precipitò fuori, dentro a quella splendida giornata di primavera che lo accarezzava con la sua brezza tiepida.
© 2009 - testo Cristina Lanaro - disegni Emanuela Lanaro
racconto
disegni di Emanuela Lanaro
La porta a vetri della palestra era socchiusa e così, senza pensarci due volte, Samo si infilò dentro, cauto, spiando da una parte e dall’altra per vedere se per caso ci fosse qualche bidello. Il suo preferito era Giovanni, un omone grande e grosso che gli mollava sempre delle gran pacche sulla schiena e che gli sorrideva, complice, quando la maestra lo cacciava fuori dalla porta. Di bidelli, però, nemmeno l’ombra.
Samo non aveva nessuna voglia di tornare a casa: da quando il papà aveva annunciato a tutta la famiglia il loro imminente trasferimento nella città dello zio, la mamma era triste, silenziosa e a pranzo nessuno di loro si guardava più negli occhi.
Com’era diversa la palestra rispetto a due ore prima: senza i gridolini soffocati dei compagni, le risate delle bambine, i richiami all’ordine della maestra, il sudore e lo scalpiccio delle suole di gomma sul pavimento, quell’ampia stanza sembrava una scatola vuota.
Samo, senza pensarci, cominciò a volteggiare in ritmati passi di danza, come faceva sempre quando era solo. Muovendosi così, seguendo la musica che in quel momento era dentro di lui, si ritrovò senza accorgersene vicino alle spalliere e alla trave, dove qualcuno, a quanto pare, aveva dimenticato delle scarpe da ginnastica viola e arancio... Ma forse no: lì c’era qualcuno, seduto!
“Ciao!”. Samo aveva quasi gridato il suo saluto mentre le sue braccia disegnavano grandi onde eleganti nello spazio attorno e le sue gambe rimbalzavano come molle sul pavimento gommoso. La risposta si fece attendere, così Samo si avvicinò per scoprire quale misterioso essere muto, proprietario di scarpe viola e arancio, stesse condividendo con lui quel pezzetto di mondo. “Ah, sei tu! Ti chiami Bianca, vero?”
Silenzio.
“Io sono Samo”. Dicendo questo il bambino mosse un rapido passo come di tip tap, che concluse a braccia aperte, sorridendo con i suoi bei dentoni bianchi, un po’ in fuori.
Bianca rimaneva ancora in silenzio, lo sguardo fisso verso la parete di fronte. Ma Samo non si scoraggiò: “Ti vedo a volte a ricreasione. Sei anche tu in quarta, no? “
... “Ciao”. Il saluto di Bianca non era dei più calorosi, ma Samo non ci fece caso, gli sembrò comunque che quella bambina triste volesse parlare con lui, perciò continuò: “Io sono qui per Giovani... cioè, pensavo che c’era Giovani, a fare le pulisie qui in palestra, ma... ci sei tu. Come va? Non pensare che sono strano, se mi muovo, è che... io balo sempre quando... ti piace balare?”. “Un po’”. Mentre rispondeva distrattamente a Samo, Bianca volse lo sguardo, preoccupata, verso il pezzetto di formaggio che aveva depositato qualche minuto prima vicino alla crepa nel muro: il bambino stava volteggiando troppo vicino per non accorgersene. Perciò, anche se le chiacchiere non erano il suo forte, proseguì: “Mi piace come balli. Fammi vedere da lontano... va’ più in là, verso i materassi, così imparo come fai”. Mai era successo a Bianca di parlare così tanto con uno sconosciuto e con un tono quasi gentile, tanto che lei stessa ne rimase meravigliata, pur restando comunque in attesa di liberarsi del ballerino e del formaggio. Ma si pentì subito della sua loquacità quando arrivò, di sorpresa, l’invito di Samo: “Vieni, bala con me: ti imparo come si fa. Ascolta con li ochi chiusi. Vieni: dami la mano, dai!”.
Un attimo dopo Bianca rimbalzava come una palla su e giù per la palestra, guidata dalle mani calde di Samo, confusa e imbarazzata. Ad un certo punto, però, la bambina cominciò a sentire qualcosa dentro, una specie di musica e i suoi passi di danza diventarono più leggeri. Non le era mai capitato di muoversi così, senza pensare a niente, seguendo solo un ritmo che arrivava da chissà dove! Se si fosse vista, così sorridente e scatenata, non si sarebbe riconosciuta: i capelli sciolti, leggeri, le volavano attorno al viso, formando una soffice nuvola nera in continuo movimento. Le sue mani, non più strette da quelle di Samo, cominciavano a disegnare strane onde sospese nell’aria, mentre le sue lunghe gambe sottili giravano, giravano...
“Sono qui per il topo, sai? Ho visto un topo, qui, quando facevo ginastica... Ho del pane per lui...”. Samo lo disse mentre Bianca si stava lanciando in un pericoloso volteggio a caduta libera e non capì perché la bambina rise tanto, dopo essere atterrata goffamente sul materassone verde in fondo alla palestra.
Quella volta finì così, con Bianca che scappava via ridendo dalla palestra e Samo che non capiva, ma era sicuro di aver messo un po’ di felicità dentro a quella bambina silenziosa, dagli occhi tristi com’era triste lui quando pensava a... Però oggi era contento: aveva una nuova amica e poi a casa c’era il suo fratellino piccolo che lo aspettava perché non voleva mangiare senza Samo. Così fece un’ultima piroetta, diede una sbirciatina alla crepa nel muro, lasciò il pane vicino al formaggio (ora aveva capito perché Bianca rideva!) e si precipitò fuori, dentro a quella splendida giornata di primavera che lo accarezzava con la sua brezza tiepida.
© 2009 - testo Cristina Lanaro - disegni Emanuela Lanaro