Articoli
Per un certo periodo ho pubblicato alcuni articoli su un mensile locale.
Scrivevo di ciò che vedevo ogni giorno nella mia città, di ciò che mi faceva arrabbiare o sorridere.
Alcuni erano strettamente legati all'attualità, altri fotografavano alcuni aspetti della società sui quali è possibile ancora oggi fare dell'ironia.
Scrivevo di ciò che vedevo ogni giorno nella mia città, di ciò che mi faceva arrabbiare o sorridere.
Alcuni erano strettamente legati all'attualità, altri fotografavano alcuni aspetti della società sui quali è possibile ancora oggi fare dell'ironia.
UOMINI E CARRELLI
Un famoso detto popolare alimenta la credenza diffusa che le donne al volante siano pericolose. In mancanza di dati ufficiali che sostengano o smentiscano tale ipotesi, rivolgiamo la nostra attenzione ad un altro tipo di guida, quella del carrello ai supermercati, nella quale si cimentano ai giorni nostri tanto le femmine quanto i maschi, per cercare di capire se realmente l’abilità di guida è una dote prevalentemente maschile.
La guida del carrello, così come la guida dell’auto, prevede che il conduttore possieda la capacità di mantenersi all’interno di una corsia senza intralciare il percorso altrui, che vengano rispettate le fondamentali regole di diritto alla precedenza e che non prolunghi la sosta del proprio mezzo in luoghi di transito.
Analizziamo ad esempio il comportamento del tipico maschio di mezza età (e oltre), in un qualsiasi supermercato, al sabato pomeriggio. Già la prima regola di guida corretta (mantenersi nella propria corsia) non viene dai soggetti in questione rispettata per due semplici motivi: il maschio esibisce la propria virilità confondendola con l’ingombro e, in secondo luogo, il maschio non sente il carrello come una sua momentanea proprietà. Il corpo del maschio all’interno della corsia stranamente si dilata da entrambe le direzioni di circolazione e il suo carrello non è mai allineato al suo corpo. Mentre guarda con sguardo vuoto i prodotti esposti con lo stessa fissità con cui vegeta davanti ad uno schermo televisivo, egli non ha alcuna consapevolezza del fatto che il suo carrello gli appartiene, né del tempo trascorso a contemplare l’ignoto (mancato rispetto dei tempi di sosta consentita). A difesa di questi comportamenti maschili, c’è da dire che il soggetto osservato molto probabilmente sta vivendo una situazione di disagio: dato che, per tutta la settimana, ha semplicemente buttato giù ogni sorta di cibo che altri hanno preparato per lui, non può d’un tratto improvvisarsi interessato alla qualità degli alimenti, soprattutto se questi si presentano misteriosamente racchiusi in buste e confezioni che egli non sa proprio come collegare con il cibo commestibile. Il malcapitato non si trova in una dimensione che sente sua e cerca di reagire come può. Dal momento però che si tratta di un uomo tutto d’un pezzo, non può certo passeggiare umilmente di fianco alla compagna, né spiare, desideroso di apprendere, le scelte altrui per farne tesoro. C’è anche da tener conto di un altro fattore: i carrelli non fanno granché rumore e il maschio, che fin da piccolo è abituato a giochi che fanno “brum” o “tu-tuu” non può certo sentirsi attratto da un mezzo di trasporto così silenzioso ed umile. Ricordiamo che dalle nostre parti il carrello è comunemente chiamato “carretto” e questo la dice lunga sull’immaginario collettivo che lo collega a visioni contadine ed arcaiche. Circa il rispetto delle regole di precedenza, non ci risulta che siano stati segnalati casi di ricoveri ospedalieri causati da scontri tra carrelli, perciò non possiamo sostenere che i maschi, così come le femmine, ignorino del tutto tali regole. Esiste comunque una sottospecie di maschi che tendono a superare i normali limiti di velocità comuni al supermercato: si tratta di quei simpatici vecchietti che, con il pretesto di accompagnare la moglie a fare la spesa, costringono le povere vecchiette ad uno slalom pauroso tra le corsie, senza smettere peraltro di incalzarle con mille brontolii per il prezzo troppo alto dei prodotti o per il troppo tempo perso. Mi chiedo quali eccezionali imprese attendano a casa questi scalpitanti piloti del carrello…
A onor del vero, dobbiamo escludere da questa breve panoramica di maschi quei moderni singles che si recano con disinvoltura al supermercato per acquistare il litro di latte e i cereali, nonché tutti quei “mammi” che eroicamente spingono carrelli stracolmi di fanciulli, biscotti e nutella: questi esemplari, non sentendosi particolarmente investiti del ruolo di maschi tutti d’un pezzo, sembra abbiano col carrello un rapporto più equilibrato.
Del resto, forse ci sarà anche qualche donna che sa guidare un’auto, o no?
© 2008 - Cristina Lanaro
Un famoso detto popolare alimenta la credenza diffusa che le donne al volante siano pericolose. In mancanza di dati ufficiali che sostengano o smentiscano tale ipotesi, rivolgiamo la nostra attenzione ad un altro tipo di guida, quella del carrello ai supermercati, nella quale si cimentano ai giorni nostri tanto le femmine quanto i maschi, per cercare di capire se realmente l’abilità di guida è una dote prevalentemente maschile.
La guida del carrello, così come la guida dell’auto, prevede che il conduttore possieda la capacità di mantenersi all’interno di una corsia senza intralciare il percorso altrui, che vengano rispettate le fondamentali regole di diritto alla precedenza e che non prolunghi la sosta del proprio mezzo in luoghi di transito.
Analizziamo ad esempio il comportamento del tipico maschio di mezza età (e oltre), in un qualsiasi supermercato, al sabato pomeriggio. Già la prima regola di guida corretta (mantenersi nella propria corsia) non viene dai soggetti in questione rispettata per due semplici motivi: il maschio esibisce la propria virilità confondendola con l’ingombro e, in secondo luogo, il maschio non sente il carrello come una sua momentanea proprietà. Il corpo del maschio all’interno della corsia stranamente si dilata da entrambe le direzioni di circolazione e il suo carrello non è mai allineato al suo corpo. Mentre guarda con sguardo vuoto i prodotti esposti con lo stessa fissità con cui vegeta davanti ad uno schermo televisivo, egli non ha alcuna consapevolezza del fatto che il suo carrello gli appartiene, né del tempo trascorso a contemplare l’ignoto (mancato rispetto dei tempi di sosta consentita). A difesa di questi comportamenti maschili, c’è da dire che il soggetto osservato molto probabilmente sta vivendo una situazione di disagio: dato che, per tutta la settimana, ha semplicemente buttato giù ogni sorta di cibo che altri hanno preparato per lui, non può d’un tratto improvvisarsi interessato alla qualità degli alimenti, soprattutto se questi si presentano misteriosamente racchiusi in buste e confezioni che egli non sa proprio come collegare con il cibo commestibile. Il malcapitato non si trova in una dimensione che sente sua e cerca di reagire come può. Dal momento però che si tratta di un uomo tutto d’un pezzo, non può certo passeggiare umilmente di fianco alla compagna, né spiare, desideroso di apprendere, le scelte altrui per farne tesoro. C’è anche da tener conto di un altro fattore: i carrelli non fanno granché rumore e il maschio, che fin da piccolo è abituato a giochi che fanno “brum” o “tu-tuu” non può certo sentirsi attratto da un mezzo di trasporto così silenzioso ed umile. Ricordiamo che dalle nostre parti il carrello è comunemente chiamato “carretto” e questo la dice lunga sull’immaginario collettivo che lo collega a visioni contadine ed arcaiche. Circa il rispetto delle regole di precedenza, non ci risulta che siano stati segnalati casi di ricoveri ospedalieri causati da scontri tra carrelli, perciò non possiamo sostenere che i maschi, così come le femmine, ignorino del tutto tali regole. Esiste comunque una sottospecie di maschi che tendono a superare i normali limiti di velocità comuni al supermercato: si tratta di quei simpatici vecchietti che, con il pretesto di accompagnare la moglie a fare la spesa, costringono le povere vecchiette ad uno slalom pauroso tra le corsie, senza smettere peraltro di incalzarle con mille brontolii per il prezzo troppo alto dei prodotti o per il troppo tempo perso. Mi chiedo quali eccezionali imprese attendano a casa questi scalpitanti piloti del carrello…
A onor del vero, dobbiamo escludere da questa breve panoramica di maschi quei moderni singles che si recano con disinvoltura al supermercato per acquistare il litro di latte e i cereali, nonché tutti quei “mammi” che eroicamente spingono carrelli stracolmi di fanciulli, biscotti e nutella: questi esemplari, non sentendosi particolarmente investiti del ruolo di maschi tutti d’un pezzo, sembra abbiano col carrello un rapporto più equilibrato.
Del resto, forse ci sarà anche qualche donna che sa guidare un’auto, o no?
© 2008 - Cristina Lanaro
DESPERATE HOUSEWIVES
La strenna natalizia per le poche ma astute lettrici dei miei articoli è una pagina di diario, nella quale qualcuna si potrà riconoscere. Altre, più fortunate, potranno sorriderne. A tutte auguro che la “pausa del Natale” sia un’occasione per godere del piacere della lettura.
Sono le 8.35 e sono finalmente sola. I bambini a scuola, il marito in ufficio. Mi sono concessa questa mattinata tutta per me dopo una settimana da incubo, passata per lo più ad accompagnare dal pediatra i miei tre catarrosi figli e ad arieggiare una casa infetta che non ho certo il tempo di pulire, visto che, tra le altre cose, lavoro. Ieri sera, in uno slancio di iperattività, ho preparato il ragù per il pranzo di oggi. Per questo sono andata a letto tardi, perché il ragù non si fa in cinque minuti… ma adesso almeno sono libera! Non ci posso credere: stanno TUTTI bene e sono TUTTI a scuola. Ho deciso: questa mattina leggerò il libro che ho iniziato qualche giorno fa. A pensarci bene devo averlo iniziato quasi un mese fa… ma non importa: quelle tre pagine e mezza me le ricordo come se le avessi lette ieri. Parlava di una lei… Luisa? O Teresa? Beh, insomma, c’era una che stava per partire per… Non so se era l’Africa o un paese arabo. Forse è meglio se mi ripasso un po’ quelle tre pagine e mezza. Che vita! Sono in pigiama, distesa sul divano e mi sto leggendo la prima pagina di questo splendido libro che parla di una che va da qualche parte. Sono proprio comoda, peccato che gli occhi mi si chiudono un po’ per la stanchezza. Però il ragù l’ho già fatto. Magari un caffettino potrebbe aiutarmi a restare sveglia. Ma poi dovrei lavarmi i denti e questo fastidioso inconveniente mi ruberebbe qualche minuto di libertà. Così però non può andare. Mi alzo per farmi il caffè. Ma che cavolo… la polvere per il caffè è finita! Devo restare calma e cercare una soluzione veloce e indolore: potrei chiederne un po’ in prestito alla mia vecchia vicina, ma quella mi attaccherebbe una pezza di mezz’ora minimo… Di andare al negozio non se ne parla: dovrei vestirmi e tutto il resto, per un dispendio complessivo di tempo pari a circa tre quarti d’ora. Accarezzo l’idea di tirarmi piuttosto di tutto punto, di infilarmi il libro nella borsa e di portarmelo al bar, dove potrei sorseggiare un meraviglioso espresso immersa nella piacevole lettura di ‘sto cavolo di libro che non ricordo neanche più chi cavolo me l’ha prestato. Ok. Mi arrendo. Mi rituffo sul divano con una gomma alla menta forte in bocca, sperando che la violenza subita dalle mie papille gustative tenga desta la mia mente per le restanti… quante ore mi restano? Sono circa le nove, quindi mi rimangono tre ore e mezza prima di fiondarmi in macchina per recuperare i ragazzi a scuola. Certo, dovrò calcolare una mezz’ora circa per vestirmi e un’altra mezz’ora per preparare il pranzo, in modo che sia tutto pronto per il ritorno delle tre belve urlanti. Adesso che ci penso, non ho scongelato il pane. Questo vuol dire che dovrò calcolare un’altra mezz’ora per andarlo a comprare, a meno che non ricorra anche per oggi ai buoni vecchi crackers… E vada per i crackers. Stasera però si riproporrà il problema e di pomeriggio di sicuro non troverò più pane dal fornaio, quindi dovrò andare per forza questa mattina, mezz’ora prima di raccattare i pargoli fuori di scuola. Dunque vediamo: mezz’ora per cucinare e condire la pasta, più preparare la tavola, mezz’ora per ripulirmi e vestirmi, mezz’ora per il pane. In tutto circa un’ora e mezza. Mi restano comunque due belle ore per scoprire dove ca… sta andando la scema del libro. Ripensando alla faccenda di preparare la tavola, mi sa che i piatti sono tutti in lavastoviglie da lavare, e a meno che non voglia dare al pranzo l’aria di un pic-nic sull’erba con tanto di piattini di carta, sarà meglio che mi alzi e che faccia partire il lavaggio. Il lavaggio breve, naturalmente sennò con quello ecologico mi ritrovo all’una con i piatti ancora sporchi. Ma che ca… No, non dirmi che mi è saltata la luce solo per la lavastoviglie!? Ma che scema, certo! Avevo anche la lavatrice accesa e mi sa che non ho neanche staccato il ferro da stiro stamattina prima di trascinare i mostri a scuola...Infatti. Eccolo là. Ancora con la sua bella spina inserita, reduce dalla consueta stirata del mattino. La sua aria altera e ottusa mi ricorda che avevo promesso alla piccola che le avrei stirato la maglietta a fiori per il suo ritorno da scuola. Basteranno per questo pochi minuti, a patto che riesca a ripristinare la corrente. Mi dirigo speranzosa al quadro alla parete che racchiude il salvavita, anche se già so che dovrò scendere da basso per far scattare l’altro pulsante, quello del contatore intelligente che ti scrive quando hai esagerato con i consumi e lampeggia lampeggia, continua a lampeggiare per un po’ anche dopo che hai messo la testa a posto e gli hai promesso solennemente che non lo farai più. Visto che il contatore intelligente sta in cortile, mi dovrò almeno mettere un paio di scarpe e una giacca lunga che mi nasconda il pigiama, per evitare che quella vipera della mia vicina pensi che passo la mattina a poltrire. Ed eccola là, sull’uscio con la sua bella tazzina fumante di caffè in mano, che mi sorride con sufficienza mentre sbircia con dissimulato interesse l’orlo del pigiama che fuoriesce dal mio giaccone. “Salve. Tutto bene?” Impossibile ignorare che, dietro l’apparente candore, la domanda nasconde la pretesa di conoscere il motivo della mia fretta. “Si, si tutto bene. E’ solo che mi è saltata la corrente…” “E già. Quei maledetti contatori moderni. Perché non si riposa un attimo e viene da me a prendere una tazza di caffè?” Ammetto che quasi mi tenta … Ma come potrei tradire la mia eroina giramondo con una penosa pettegola di quartiere? “No, grazie. Magari un’altra volta. Ho un sacco di lavori da sbrigare prima che tornino i ragazzi” E mi fiondo verso il tasto lampeggiante che mi salverà dall’oblio elettrodomestico. Ecco fatto. Tutto a posto. La vicina è rientrata. Di sicuro mi sta spiando da dietro la tendina a pallini della sua linda cucina. Ormai non posso certo chiederle in prestito un po’ di polvere per il caffè, dopo aver rifiutato di dividere con lei il piacere di una tazzina ancora fumante. Rientro rapida a casa, dove il rumore della lavastoviglie in funzione mi rassicura. Avrò perso sì e no dieci minuti, ma ormai la maglietta a fiori di mia figlia occupa completamente i miei pensieri e da lì parte la mia immaginaria rassegna di tutti gli altri indumenti che prima di sera dovrò stirare per evitare che qualcun altro dei miei figli giri per casa in mutande. Oddio! La camicia di mio marito sta nuotando nel cesto della lavatrice che ho dovuto mettere in pausa per evitare l’eccesso energetico ed è proprio quella che stasera doveva mettere per la cena con i colleghi. Forse un rimedio c’è, anche se estremo. Blocco la lavastoviglie. Faccio partire il programma di scarico della lavatrice, aspetto che questo finisca e poi estraggo con maestria la camicia. La passo nella vaschetta per il lavaggio a mano e corro a riaccendere la lavastoviglie. Con rapidi gesti gratto i polsi e il collo della camicia, la sciacquo ed ecco fatto: è pronta per essere stesa al sole di questa splendida mattinata di primavera, che la asciugherà in poche ore. O almeno spero. Sto valutando seriamente la possibilità di provare ad accendere il ferro da stiro contemporaneamente alla lavastoviglie. Voglio rischiare. Rischio. Siii! Funziona! Non è saltata la corrente e non salterà. Potrei stirare anche tutta la montagna di panni e non salterebbe. Sto stirando tutta la montagna di panni. Uno dopo l’altro, quasi in trance, senza neanche accendere la radio per non perdere tempo. La pipì però la devo fare assolutamente, se non voglio scoppiare. Mi dirigo in bagno con la testa sgombra di pensieri, quasi felice, tanto che in un primo momento quasi non mi accorgo delle macchie di calcare che circondano i rubinetti. Faccio in fretta la pipì e poi passo con maestria l’anticalcare prima sulla vasca, poi sul lavandino e sul bidè. Per il water, invece, ricorro all’ammoniaca profumata, che mi fa un po’ tossire ma mi fa anche sentire profondamente in pace con me stessa. Torno al ferro da stiro, chiedendomi però con curiosità quasi morbosa a che ciclo sarà arrivata la lavastoviglie. Mi dirigo quasi correndo in cucina, ma nel corridoio mi accorgo che il piccolo ha buttato le calze sporche in un angolo. L’odore che ne proviene è quasi insopportabile: come ho fatto a non notarlo prima? Le prendo con due dita e le butto in lavatrice, imposto il lavaggio e… Nooo! E’ saltata di nuovo la corrente. Sto. Immobile. Calma all’inizio. Poi lo sguardo mi cade sull’orologio a parete e il mondo crolla. Sono le dodici e quindici. Troppo tardi per la pasta. Troppo tardi per il pane. Troppo tardi per organizzare una fuga dignitosa. Mi vesto in fretta, quasi senza lavarmi, mi pettino e mi metto il rossetto, per far capire che è il mio giorno di vacanza. Da fuori giunge un suono anomalo per un sereno giorno di primavera…toh, un tuono… e una pioggerella leggera comincia a tamburellare sul vetro della finestra del bagno… La camicia stesa!
© 2008 - Cristina Lanaro
La strenna natalizia per le poche ma astute lettrici dei miei articoli è una pagina di diario, nella quale qualcuna si potrà riconoscere. Altre, più fortunate, potranno sorriderne. A tutte auguro che la “pausa del Natale” sia un’occasione per godere del piacere della lettura.
Sono le 8.35 e sono finalmente sola. I bambini a scuola, il marito in ufficio. Mi sono concessa questa mattinata tutta per me dopo una settimana da incubo, passata per lo più ad accompagnare dal pediatra i miei tre catarrosi figli e ad arieggiare una casa infetta che non ho certo il tempo di pulire, visto che, tra le altre cose, lavoro. Ieri sera, in uno slancio di iperattività, ho preparato il ragù per il pranzo di oggi. Per questo sono andata a letto tardi, perché il ragù non si fa in cinque minuti… ma adesso almeno sono libera! Non ci posso credere: stanno TUTTI bene e sono TUTTI a scuola. Ho deciso: questa mattina leggerò il libro che ho iniziato qualche giorno fa. A pensarci bene devo averlo iniziato quasi un mese fa… ma non importa: quelle tre pagine e mezza me le ricordo come se le avessi lette ieri. Parlava di una lei… Luisa? O Teresa? Beh, insomma, c’era una che stava per partire per… Non so se era l’Africa o un paese arabo. Forse è meglio se mi ripasso un po’ quelle tre pagine e mezza. Che vita! Sono in pigiama, distesa sul divano e mi sto leggendo la prima pagina di questo splendido libro che parla di una che va da qualche parte. Sono proprio comoda, peccato che gli occhi mi si chiudono un po’ per la stanchezza. Però il ragù l’ho già fatto. Magari un caffettino potrebbe aiutarmi a restare sveglia. Ma poi dovrei lavarmi i denti e questo fastidioso inconveniente mi ruberebbe qualche minuto di libertà. Così però non può andare. Mi alzo per farmi il caffè. Ma che cavolo… la polvere per il caffè è finita! Devo restare calma e cercare una soluzione veloce e indolore: potrei chiederne un po’ in prestito alla mia vecchia vicina, ma quella mi attaccherebbe una pezza di mezz’ora minimo… Di andare al negozio non se ne parla: dovrei vestirmi e tutto il resto, per un dispendio complessivo di tempo pari a circa tre quarti d’ora. Accarezzo l’idea di tirarmi piuttosto di tutto punto, di infilarmi il libro nella borsa e di portarmelo al bar, dove potrei sorseggiare un meraviglioso espresso immersa nella piacevole lettura di ‘sto cavolo di libro che non ricordo neanche più chi cavolo me l’ha prestato. Ok. Mi arrendo. Mi rituffo sul divano con una gomma alla menta forte in bocca, sperando che la violenza subita dalle mie papille gustative tenga desta la mia mente per le restanti… quante ore mi restano? Sono circa le nove, quindi mi rimangono tre ore e mezza prima di fiondarmi in macchina per recuperare i ragazzi a scuola. Certo, dovrò calcolare una mezz’ora circa per vestirmi e un’altra mezz’ora per preparare il pranzo, in modo che sia tutto pronto per il ritorno delle tre belve urlanti. Adesso che ci penso, non ho scongelato il pane. Questo vuol dire che dovrò calcolare un’altra mezz’ora per andarlo a comprare, a meno che non ricorra anche per oggi ai buoni vecchi crackers… E vada per i crackers. Stasera però si riproporrà il problema e di pomeriggio di sicuro non troverò più pane dal fornaio, quindi dovrò andare per forza questa mattina, mezz’ora prima di raccattare i pargoli fuori di scuola. Dunque vediamo: mezz’ora per cucinare e condire la pasta, più preparare la tavola, mezz’ora per ripulirmi e vestirmi, mezz’ora per il pane. In tutto circa un’ora e mezza. Mi restano comunque due belle ore per scoprire dove ca… sta andando la scema del libro. Ripensando alla faccenda di preparare la tavola, mi sa che i piatti sono tutti in lavastoviglie da lavare, e a meno che non voglia dare al pranzo l’aria di un pic-nic sull’erba con tanto di piattini di carta, sarà meglio che mi alzi e che faccia partire il lavaggio. Il lavaggio breve, naturalmente sennò con quello ecologico mi ritrovo all’una con i piatti ancora sporchi. Ma che ca… No, non dirmi che mi è saltata la luce solo per la lavastoviglie!? Ma che scema, certo! Avevo anche la lavatrice accesa e mi sa che non ho neanche staccato il ferro da stiro stamattina prima di trascinare i mostri a scuola...Infatti. Eccolo là. Ancora con la sua bella spina inserita, reduce dalla consueta stirata del mattino. La sua aria altera e ottusa mi ricorda che avevo promesso alla piccola che le avrei stirato la maglietta a fiori per il suo ritorno da scuola. Basteranno per questo pochi minuti, a patto che riesca a ripristinare la corrente. Mi dirigo speranzosa al quadro alla parete che racchiude il salvavita, anche se già so che dovrò scendere da basso per far scattare l’altro pulsante, quello del contatore intelligente che ti scrive quando hai esagerato con i consumi e lampeggia lampeggia, continua a lampeggiare per un po’ anche dopo che hai messo la testa a posto e gli hai promesso solennemente che non lo farai più. Visto che il contatore intelligente sta in cortile, mi dovrò almeno mettere un paio di scarpe e una giacca lunga che mi nasconda il pigiama, per evitare che quella vipera della mia vicina pensi che passo la mattina a poltrire. Ed eccola là, sull’uscio con la sua bella tazzina fumante di caffè in mano, che mi sorride con sufficienza mentre sbircia con dissimulato interesse l’orlo del pigiama che fuoriesce dal mio giaccone. “Salve. Tutto bene?” Impossibile ignorare che, dietro l’apparente candore, la domanda nasconde la pretesa di conoscere il motivo della mia fretta. “Si, si tutto bene. E’ solo che mi è saltata la corrente…” “E già. Quei maledetti contatori moderni. Perché non si riposa un attimo e viene da me a prendere una tazza di caffè?” Ammetto che quasi mi tenta … Ma come potrei tradire la mia eroina giramondo con una penosa pettegola di quartiere? “No, grazie. Magari un’altra volta. Ho un sacco di lavori da sbrigare prima che tornino i ragazzi” E mi fiondo verso il tasto lampeggiante che mi salverà dall’oblio elettrodomestico. Ecco fatto. Tutto a posto. La vicina è rientrata. Di sicuro mi sta spiando da dietro la tendina a pallini della sua linda cucina. Ormai non posso certo chiederle in prestito un po’ di polvere per il caffè, dopo aver rifiutato di dividere con lei il piacere di una tazzina ancora fumante. Rientro rapida a casa, dove il rumore della lavastoviglie in funzione mi rassicura. Avrò perso sì e no dieci minuti, ma ormai la maglietta a fiori di mia figlia occupa completamente i miei pensieri e da lì parte la mia immaginaria rassegna di tutti gli altri indumenti che prima di sera dovrò stirare per evitare che qualcun altro dei miei figli giri per casa in mutande. Oddio! La camicia di mio marito sta nuotando nel cesto della lavatrice che ho dovuto mettere in pausa per evitare l’eccesso energetico ed è proprio quella che stasera doveva mettere per la cena con i colleghi. Forse un rimedio c’è, anche se estremo. Blocco la lavastoviglie. Faccio partire il programma di scarico della lavatrice, aspetto che questo finisca e poi estraggo con maestria la camicia. La passo nella vaschetta per il lavaggio a mano e corro a riaccendere la lavastoviglie. Con rapidi gesti gratto i polsi e il collo della camicia, la sciacquo ed ecco fatto: è pronta per essere stesa al sole di questa splendida mattinata di primavera, che la asciugherà in poche ore. O almeno spero. Sto valutando seriamente la possibilità di provare ad accendere il ferro da stiro contemporaneamente alla lavastoviglie. Voglio rischiare. Rischio. Siii! Funziona! Non è saltata la corrente e non salterà. Potrei stirare anche tutta la montagna di panni e non salterebbe. Sto stirando tutta la montagna di panni. Uno dopo l’altro, quasi in trance, senza neanche accendere la radio per non perdere tempo. La pipì però la devo fare assolutamente, se non voglio scoppiare. Mi dirigo in bagno con la testa sgombra di pensieri, quasi felice, tanto che in un primo momento quasi non mi accorgo delle macchie di calcare che circondano i rubinetti. Faccio in fretta la pipì e poi passo con maestria l’anticalcare prima sulla vasca, poi sul lavandino e sul bidè. Per il water, invece, ricorro all’ammoniaca profumata, che mi fa un po’ tossire ma mi fa anche sentire profondamente in pace con me stessa. Torno al ferro da stiro, chiedendomi però con curiosità quasi morbosa a che ciclo sarà arrivata la lavastoviglie. Mi dirigo quasi correndo in cucina, ma nel corridoio mi accorgo che il piccolo ha buttato le calze sporche in un angolo. L’odore che ne proviene è quasi insopportabile: come ho fatto a non notarlo prima? Le prendo con due dita e le butto in lavatrice, imposto il lavaggio e… Nooo! E’ saltata di nuovo la corrente. Sto. Immobile. Calma all’inizio. Poi lo sguardo mi cade sull’orologio a parete e il mondo crolla. Sono le dodici e quindici. Troppo tardi per la pasta. Troppo tardi per il pane. Troppo tardi per organizzare una fuga dignitosa. Mi vesto in fretta, quasi senza lavarmi, mi pettino e mi metto il rossetto, per far capire che è il mio giorno di vacanza. Da fuori giunge un suono anomalo per un sereno giorno di primavera…toh, un tuono… e una pioggerella leggera comincia a tamburellare sul vetro della finestra del bagno… La camicia stesa!
© 2008 - Cristina Lanaro
SI FUMAVA AI TEMPI DI GESU’?
Chiunque sia stato a New York negli ultimi anni sa quanto sia dura laggiù per un fumatore coltivare il suo vizio: si percorrono chilometri prima di trovare una tabaccheria e chi fuma per strada si sente al limite della legalità.
Proprio l’America, che per decenni ci ha mostrato, attraverso i suoi miti del grande schermo, quanto sia affascinante fumare, oggi ci dice che non è una cosa buona.
E il nostro paese, naturalmente, si adegua. Nei locali pubblici, giustamente, non si fuma più, ma è sconsigliato farlo anche in vicinanza di scuole e nella propria auto. I vantaggi medici che si hanno se si decide di smettere sono innegabili, ma quello che non convince è l’ipocrisia di uno stato che comunque mantiene il monopolio di un vizio considerato mortale. L’ipocrisia di uno stato che per decenni non si è preoccupato della salute della popolazione ed ha allegramente introitato nelle sue casse palate di denaro derivato dalla vendita del fumo ma che ora, obbediente alle direttive mondiali sulla salute, ricopre i pacchetti con scritte macabre e intimidatorie. Mi chiedo come mai allora c’è ancora il monopolio di stato sulle bionde; forse le entrate delle vendite del tabacco vanno in beneficenza ai malati di tumore? Davvero lo stato rinuncerebbe a questo grande business? L’aumento del prezzo delle sigarette non è per caso dovuto alla necessità di compensare il calo del numero dei fumatori? Per assurdo, un fumatore d’oggi potrebbe anche sentirsi un eroe nazionale perché immola la propria vita alla ricchezza dello stato.
E’ certo che si è perso col tempo la vera essenza del fumo, che originariamente doveva essere una forma di comunione con il divino che è dentro e fuori di noi, oppure semplicemente un piacevole momento di relax. Chissà se alle nozze di Cana si festeggiò solo con il vino o anche con un’innocente fumatina? Nel rito cattolico il fumo, sotto forma di incenso, ha proprio la funzione di sottolineare momenti particolarmente significativi della celebrazione. E ai tempi di Gesù? Nessuno ne parla.
Però si parla di vino, si veda ad esempio le nozze di Cana, ed infatti il vino permane, non solo come simbolo, nella liturgia eucaristica. Credo che questo particolare sia sfuggito alla censura americana, altrimenti i nostri sacerdoti sarebbero già costretti a nascondere il calice in un cartoccio, come ogni bravo americano che si rispetti.
© 2009 - Cristina Lanaro
Chiunque sia stato a New York negli ultimi anni sa quanto sia dura laggiù per un fumatore coltivare il suo vizio: si percorrono chilometri prima di trovare una tabaccheria e chi fuma per strada si sente al limite della legalità.
Proprio l’America, che per decenni ci ha mostrato, attraverso i suoi miti del grande schermo, quanto sia affascinante fumare, oggi ci dice che non è una cosa buona.
E il nostro paese, naturalmente, si adegua. Nei locali pubblici, giustamente, non si fuma più, ma è sconsigliato farlo anche in vicinanza di scuole e nella propria auto. I vantaggi medici che si hanno se si decide di smettere sono innegabili, ma quello che non convince è l’ipocrisia di uno stato che comunque mantiene il monopolio di un vizio considerato mortale. L’ipocrisia di uno stato che per decenni non si è preoccupato della salute della popolazione ed ha allegramente introitato nelle sue casse palate di denaro derivato dalla vendita del fumo ma che ora, obbediente alle direttive mondiali sulla salute, ricopre i pacchetti con scritte macabre e intimidatorie. Mi chiedo come mai allora c’è ancora il monopolio di stato sulle bionde; forse le entrate delle vendite del tabacco vanno in beneficenza ai malati di tumore? Davvero lo stato rinuncerebbe a questo grande business? L’aumento del prezzo delle sigarette non è per caso dovuto alla necessità di compensare il calo del numero dei fumatori? Per assurdo, un fumatore d’oggi potrebbe anche sentirsi un eroe nazionale perché immola la propria vita alla ricchezza dello stato.
E’ certo che si è perso col tempo la vera essenza del fumo, che originariamente doveva essere una forma di comunione con il divino che è dentro e fuori di noi, oppure semplicemente un piacevole momento di relax. Chissà se alle nozze di Cana si festeggiò solo con il vino o anche con un’innocente fumatina? Nel rito cattolico il fumo, sotto forma di incenso, ha proprio la funzione di sottolineare momenti particolarmente significativi della celebrazione. E ai tempi di Gesù? Nessuno ne parla.
Però si parla di vino, si veda ad esempio le nozze di Cana, ed infatti il vino permane, non solo come simbolo, nella liturgia eucaristica. Credo che questo particolare sia sfuggito alla censura americana, altrimenti i nostri sacerdoti sarebbero già costretti a nascondere il calice in un cartoccio, come ogni bravo americano che si rispetti.
© 2009 - Cristina Lanaro